La maturità di una società è misurabile dalla capacità di assumersi come soggetto ed oggetto di analisi; siccome, in forma maggiore o minore, massima o minima, ogni contesto sociale è tensione e conflitto, il momento in cui l’analisi è più ampia e accessibile vuol dire che il conflitto è non più (o è ancora per poco) latente ma sempre più palese e metabolizzato da larghe fasce della popolazione.
La -semplice? – variazione del punto di vista in un dibattito pubblico è già espressione di conflitto, così come il litigio per il posto auto condominiale.
Le società più attive e vitali sono sicuramente quelle in cui il conflitto è più acceso; sfortunatamente, ciò non vuol dire che siano anche quelle che meglio funzionino. Una società conflittuale è perlopiù sinonimo di florida attività culturale, siccome questa esiste laddove c’è una salda visione del mondo e, cosa ancor più importante, una teoria opposta da circoscrivere e contro la quale autodeterminarsi, distinguersi, darsi nome e cognome. Raramente, volendo sempre ammettere il ragionevole dubbio fino a prova contraria, la conflittualità ideologico-culturale si disgiunge dalla conflittualità politica e, anzi, l’una è strettamente correlata all’altra: esito a dire che la politica sia strumento della cultura intesa come visione del mondo, in quanto, in realtà, la politica può ben essere svincolata da qualsivoglia fine ideologico-morale e sussistere come pura e perfetta gestione del potere -vuota di contenuti? Ammettiamolo; la qual cosa mantiene, comunque, poca importanza -, ma certo non possiamo non concedere che anche chi faccia uso del potere per il potere, in fondo, porti avanti il proprio modus ideologicum attraverso la politica.
Se questo è vero, bisogna evidenziare come non di rado grandissimi totem culturali anche del passato recente (le colonne d’Ercole della nostra tradizione letteraria, in buona sostanza) abbiano scelto di collocarsi al di fuori della sfera politica pur rimanendo influentissimi per coloro che vi erano all’interno per il fatto banale di tessere lo sfondo d’analisi teorico-letteraria della società in cui tutti insieme vivevano.
Mi viene in mente Montale, e non soltanto per il peso specifico notevole che ha rappresentato nella storia della letteratura contemporanea, ma per la veicolazione di una filosofia debole, ma radicale, del dubbio e della sfiducia nella letteratura, nella parola e, quindi, nella razionalità, nella capacità dell’uomo di comprendere l’esistente per com’è (contesto sociale incluso).
Mi viene in mente Montale perché, con la sua morte, si chiude per grandi linee il fil rouge della poesia italiana, almeno fino ad oggi.
Stesso discorso, negli stessi anni, vale per la prosa: Eco e Calvino, accogliendo i primi elementi postmoderni, ancora oggi sanciscono il terminus post quem la storia letteraria del nostro paese si trova impantanata, nella carenza totale di stimoli vitali o, quantomeno, di visione -più o meno – sistematica della realtà.
È sintomatico il fatto che il ‘900, al di là di ogni demonizzazione che non ci interessa, sia stato costellato, tanto in Italia come nel resto del mondo, da una conflittualità altissima prodottasi in foci letterarie numerosissime, originali e dal grande valore artistico. Appare difficile negare un pur improvabile nesso causale tra tensione ideologico-politica e fertilità letterario-filosofica – in senso lato, culturale -, seppure non possiamo non considerare quanto la qualità “poetica” (ovvero, di “fare”, di concepire l’oggetto artistico, l’arte, la poesia come tali) sia inevitabilmente attributo soggettivo innato o, volendo ammetterlo, determinato da primi e fondamentali stimoli contestuali; innata e/o contestuale che sia, la capacità di vedere se stessi ed il mondo riesce essenziale a coloro i quali vogliano fare arte, senonché il momento poetico diventerebbe esercizio tecnico.
Non è questa la sede, ovviamente, per una trattazione ampia sulla storia del secolo ventesimo: ci è bastato ricordare la curiosa coincidenza tra quanto la contesa sociale, in ogni sua forma, e perlopiù, ha inciso nell’ultimo periodo.
Cosa ci lascia il secolo andato? C’è molto da dire.
Il ‘900 ha visto tutto ed il contrario di tutto: avanguardie, tensioni classicistiche e passatiste, apertura entusiastica alla potenza industriale, analisi scientifica della letteratura, abbandono totale al filone romantico mai del tutto esauritosi, sfiducia nella letteratura e nella possibilità razionale dell’uomo, rifunzionalizzazione della tradizione, chiusura nel mondo del soggetto.
Di questo caleidoscopio s’è scritto e detto quanto meglio non si sarebbe potuto: oggi, tuttavia, se è vero, come chi scrive sostiene, che di questo caleidoscopio sia rimasta una sbiadita e spesso sconosciuta immagine nei libri universitari (la scuola non lo tocca neppure, semmai lo blandisce), ci troviamo a chiederci quale sia quel filo -evidentemente sottilissimo, nel caso – che pure collega, come è sempre, queste fasi storico-culturali così vicine e così diverse.
Evidentemente le caratteristiche del contesto sono completamente cambiate: l’Occidente, nella placida visione dell’opinione pubblica, è il mondo migliore fra quelli possibili, teatro della pace sociale, della pace in generale, non conosce guerre, vive in un certo diffuso benessere nonostante le crisi sistemiche da cui è puntualmente scosso. Ovviamente, l’opinione pubblica cui ci riferiamo è quella che, un minimo, è capace -o tale si ritiene – di comprendere od elaborare una concezione critica del mondo in cui vive: per ciò, dunque, è a parte del panorama culturale contemporaneo, del dibattito politico, de ceteris.
Checché se ne dica, l’ultimo grande momento di frattura avvertito dal cittadino medio Occidentale è stato il 1989; una vita fa. Generazioni e generazioni, tra cui la mia, si ritrovano letteralmente a non aver mai avuto contezza di un disagio consapevole di una fetta più o meno grande della torta sociale. In questo idillico e avvilentissimo quadro di stasi epocale, soprattutto in un mondo rapido come quello in cui viviamo -fortunatamente o sfortunatamente -, chi più ha avuto l’onore e l’onere di leggere, interpretando, il presente?
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