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Le lettere non forniscono, oggi, nuove chiavi ermeneutiche:
non esiste, nel mercato librario -locuzione adattissima -, una proposta
rivoluzionaria, differente, sinceramente altra rispetto a tutto ciò che già
c’è.
Perché? Il quadro sociale in cui l’artista si trova a
spaziare ha metabolizzato benissimo le spinte opposte acquisite dagli ultimi
cento anni, normalizzandole.
Per un secondo, usciamo dalla letteratura, e facciamo un
esempio: i Maneskin vincono a San Remo. Non disdegno stupidamente i fatti quasi
cronachistici o le espressioni più vicini ad una forma popolare di cultura che
oggidì si definisce commerciale -a buon diritto - perché vorrebbe dire chiudere
gli occhi sulla realtà in cui viviamo, perdendo a priori ogni velleità di
comprensione, per quanto limitata.
Dicevamo: i Maneskin. Questa giovane band, che fa forma del
contenuto e viceversa, riprende naturalmente le espressioni rock del secolo
passato, che nel contesto storico furono un momento di enorme rottura: non era
soltanto la musica ad essere profondamente diversa, squassante, dura, ma anche
la vita dei rocker, sempre al limite, all’eccesso, così diversa dal quadro
culturale contro cui entrava in conflitto con la forza prorompente di un cuneo
di cavalleria. Cosa rimane di tutto questo nei Maneskin? La forma, forse, e
null’altro, senonché, quantomeno, un apprezzabile talento musicale.
La differenza sta nel fatto che la nostra cultura, come
dicevamo, ha accettato, normalizzato, quegli elementi, i quali non sono più
dirompenti ma classici, canonici; rientrano nell’orizzonte d’attesa, non
aggiungono più nulla di quanto già non ci si aspetti o non si sappia.
Questo vale anche per tutte o quasi le espressioni
letterarie con cui ci si trova a fare i conti: non è una novità la presenza di
romanzieri o poeti i quali altro non facciano che fungere da specchio
irriflesso della propria formazione culturale, fenomeno apprezzabile da quando
esiste, almeno in Italia, una circolazione accettabilmente ampia del prodotto
letterario (metà ‘800) e quindi una certa vitalità del mercato editoriale.
Eppure, accanto a queste pubblicazioni, mancano personalità forti: uno degli
autori più piacevoli da leggere è, a mio parere, Carofiglio, ma certo non
fornisce nessun altro utile se non, appunto, un certo diletto narrativo e
formale. Cosa cui certo le lettere tendono sempre -ce lo insegna anche il buon
Manzoni -, ma che non è di per sé sufficiente a rendere altrimenti la grandezza
“classica” di un’opera, un proprio ragionevole valore artistico.
Il rischio che corre chi sceglie, avendone le capacità, la
reinterpretazione originale del proprio patrimonio culturale o del proprio
contesto sociale -o di quello futuro - è l’incomprensione del pubblico ampio,
che può non essere ancora dotato di quegli strumenti interpretativi per
decodificare un certo tipo di linguaggio. Tuttavia, ciò che salva l’autore
dalla quiescenza storica è l’effetto comunque forte del suo prodotto: quanto
provoca una reazione, sia positiva che negativa, causa nel reagente un flusso
di umore ed il conseguente giudizio piuttosto che l’indifferenza, esito mesto
delle cose senza valore.
Italo Svevo -al secolo Aron Hector Schmitz – non ebbe grande
fortuna finché Montale, ad esempio, ne avvertì, grazie anche all’interesse
fortissimo della sua amata Mosca, la forza prorompente, l’originalità, la
modernità ed internazionalità di quel modo di fare letteratura, apertissimo
alle influenze tecniche ed alle culture straniere -e relative lingue/strutture
lessico-sintattiche – addirittura più che a quella italiana, almeno nelle prime
edizioni. Tratti, questi, soprattutto il primo, che unirono figure come C.E.
Gadda, Montale stesso, Svevo, Pavese -basti ricordare l’ammirazione sconfinata
che Montale ebbe per Elliott -.
Questo rischio d’incomprensione, oggi, è tanto più forte
perché, ove mai sia, il polo opposto dell’universo culturale, quello da
occupare, è vuoto. Attorno ad esso, come abbiamo appurato, convergono con
traiettoria ellittica ma sideralmente lontana, in una sterile nebulosa, tutti i
carofiglio-simile -non me ne voglia il nostro – e la pletora infinita dei buoni
romanzieri e poeti da quiete letture a lume d’abat-jour.
Non dobbiamo fare colpevoli costoro di ciò che non vogliono
o non possono fare: infatti, o non ne hanno le capacità, oppure, qualora le
abbiano, preferiscono un’arte più tiepida, confortevolmente adagiata su un
pacifico consenso di pubblico, impegnata a dare un delicato colpo di pennello
su una tela già calcata da innumerevoli tempere. Preferiscono, in fin dei
conti, la lettura culturale in cui si sentono pienamente iscritti e della quale
si vedono parte non solo strutturale ma attiva, confermativa, vitale entro i
limiti riconosciuti e bellamente accettati.
Non si può chiedere, cioè, un cambio di prospettiva radicale
a chi possiede di già una prospettiva, seppure poco originale, consolidata ed
accettata della realtà in cui vive: né si può idealisticamente bollare come
sbagliata una visione della realtà cui ci si oppone, in un gioco così
soggettivo come quello letterario.
Fatto sta che siamo disperatamente carenti di
un’alternativa, molto più dell’aria fresca.
Qual è il punto di fuga verso cui convergeranno il disagio
sociale, intellettuale, umano e soggettivo, di fronte ad una lettura del reale
che, se non vogliamo dire sbagliata, concorderemo insufficiente?
Manca innanzitutto la consapevolezza del disagio,
l’elaborazione letterario-artistica del disagio. Il vuoto della poesia si
avverte più profondo che mai su questa tematica: l’avvertimento della
contraddizione è il suo primo compito o, molto meglio, la sua più splendida
peculiarità, almeno in epoca moderna. La mancanza attuale rispetto alla
presenza passata rafforza questo divaricamento.
L’avvertimento della contraddizione è utile sia per
un’indagine sociale, sia per un sondaggio squisitamente umano/umanistico. Il
rapporto fra l’anima dell’uomo singolo, tra quel mosaico di affetti, passioni,
conoscenze, rapporti interpersonali, quell’accumulo di atteggiamenti diversi,
del peso della memoria, e l’ombra di un’inquadratura etico-morale nella quale
ognuno sente il bisogno di inscriversi, producono un inconfessabile bifrontismo
che è modernissimo e prediletto terreno d’indagine poetica. Il primo esito di
questo conflitto è la parola poetica, come involucro razionale minimo della
fluida irregolarità delle persone nella persona, tanto minimo quanto più vicino
all’irrazionale si è tentato di porlo; è parola singola, è -per quanto vago -
legame, rapporto, ragione al livello più scabro, puro, convenzione minima,
quanto più piccola tanto più capace di svelare quel tentativo razionale di
rendere comunicabile ciò che non lo è.
Ci sembra difficile che la poesia, oggi, possa prendere su
di sé quel magnifico messaggio etico-sociale che pure ha accompagnato nella
storia della nostra cultura, non foss’altro che per la frammentazione che
l’orizzonte etico adesso sopporta come proprio tratto distintivo. Il
destinatario del messaggio, in poche parole, sarebbe di pochissimo conto o,
talvolta, non vi sarebbe affatto. Ciò che rimane in comune, ciò che si può
scandagliare, ciò che il poeta può esprimere sperando di produrre qualcosa che
abbia un valore non solo per sé è, contraddizione anche questo, proprio
l’esperire personale delle cose del mondo, la forma che i colpi degli
accadimenti incidono nell’anima, i crateri che ne rimangono, il corpo lunare
risultante: l’espressione di ciò che l’uomo sente vivendo nel contesto comune,
al di fuori della singolare collocazione sociale, dell’orizzonte etico. Quello
che la persona sperimenta vivendo in condizioni vagamente comuni. I grandi
problemi dell’uomo contemporaneo non possono più sfuggire a questo vaglio
interiore e, contemporaneamente, in un certo senso, universale.
Il panorama poetico attuale manca di tutto ciò; quanto
emerge è sparuta ed epigrammatica espressione del capriccio umano dell’uomo
comune. È il cantico d’un gallo che canta, si cheta, poltrisce. Trattandosi di
poesia con destinazione ampissima, non dovrebbe stupirci, e non ci stupirebbe, se
non per la mancanza totale di capillare diffusione d’altro.
L’orizzonte internazionale appare quantomeno velato da
refoli giovanili, impegnati nella lotta civile per alcuni diritti e contro una
certa emarginazione sociale che, in fin dei conti, è in primis economica;
queste prospettive, tuttavia, se sono confutabili anche in culla,
ideologicamente, certo non ci possono appartenere, perché non alternative, ma
altre da noi. Nonostante il mio amore e l’ammirazione sconfinata per la forza
poetica e la vita di Nazim Hikmet, non m’azzarderei mai a proporlo come modello
d’imitazione sic et simpliciter perché onoratissimo germoglio di un orizzonte
culturale e sociale passato e diversissimo. Sarebbe possibile, ed anzi
auspicabile, una rielaborazione consapevole, senza anacronismi, che sappia
rivolgersi al presente o, meglio, che sappia rileggere ciò che il presente
implica con un linguaggio differente ma non decontestualizzato.
La sistematizzazione e l’indagine propria dell’uomo, sia in
sé sia nel contesto sociale e del contesto stesso, invece, ci sembra peculiare
del romanzo o, comunque, della prosa. La sua capacità di indagare a fondo ogni
possibile aspetto della realtà, ogni dettaglio, ogni registro stilistico, il
suo bagaglio storico, la sua maturità letteraria lo mette di diritto di fianco
alle più splendide scene del teatro moderno.
La prosa che manca è un realismo teatrale.
SEGUIRA' PARTE TERZA
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