L’opera al nero è un romanzo storico che racconta le
vicende di Zenone, un medico-filosofo vissuto nel XVI secolo.
Nella tradizione alchemica la Nigredo,
o Opera al nero, è una delle fasi costitutive della Grande Opera,
il percorso di trasformazione chimica del metallo finalizzato alla creazione
della pietra filosofale, allegoria dell’itinerario di transizione spirituale
degli adepti della scuola alchemica. Essa indica la prima tappa del processo, quello
della putrefazione e della disgregazione della materia. Il titolo scelto da
Marguerite Yourcenar non vuole semplicemente essere un’allusione evocativa alla
letteratura alchemica, ma è una sintesi perfetta che anticipa i contenuti del
testo e prepara il lettore ad una giusta impostazione d’animo
nell’intraprendere la lettura dell’opera. Bisogna continuamente permettere la
disintegrazione del proprio io per poter risorgere di nuova vita. Nelle
primissime pagine del libro, interrogato dal cugino su quale fosse la meta del
suo viaggio egli risponde: “Un altro mi attende altrove, sto andando da lui.
Chi? Me stesso”.
Leggere L’opera al nero è come incontrare un’oasi di
ristoro durante una camminata nel deserto, una fonte di acqua pura in un
torbido pantano. È un libro che spinge alla riflessione in un’epoca che vuol
distruggere tutto ciò che richieda un dispendio di energie nella formazione del
pensiero critico. La sua lettura è un campanellino di allarme sulla necessità
di ritrovare la componente magica e spirituale dell’essere umano e frenare la
cavalcata devastatrice dell’homo-oeconomicus, intento solo a fagocitare
acriticamente le esperienze del vissuto, a consumare meccanicamente il tempo
essendone inconsapevolmente consumato; è un lucido grido al lungimirante
bisogno di essere contro la stoltezza dell’avere. Il testo della Yourcenar è intriso di magia
razionale, è un richiamo alle nostre radici ancestrali, ad un legame
tegumentario con la parte inconscia e stratificata del nostro essere, ed un
invito a concepire la vita in senso olistico e non compartimentalizzato, in comunione ed armonia con
tutte le manifestazioni della Grande Opera universale.
La Yourcenar ci regala un libro circolare, dove il principio
contiene già tutti gli elementi dell’epilogo, e la fine porta in se i semi
dell’inizio. È un tema questo che emerge più volte nella trattazione: la
concezione fluida e circolare del tempo soggettivo, che come un tessuto
elastico si accorcia e si estende in base alle contingenze momentanee; in un
solo momento è possibile riavvolgerlo e rivedersi nel passato, in una serie di
immagine che sfumano l’una nell’altra trascendendo le leggi stabili della
fisica classica, così come, al contrario, è possibile tendere i suoi lembi e
incastonare il momento in un’eterna percezione dell’istante. Ed è così che per Zenone
“il tempo fuggiva e si componeva come gocce di mercurio. Le ore, i giorni, i
mesi avevano cessato di corrispondere ai segni degli orologi e perfino ai moti
degli astri […] il tempo e l’eternità erano la stessa cosa, come un’acqua nera
che fluisce in una falda d’acqua nera immutevole; le
ore passano e fuggono alla velocità d’una meteora, ora invece si riassorbono in
se stesse sotto la fissità dello sguardo interiore”. Nel primo incontro fra
Zenone e suo cugino -Massimiliano Giusto- è già tutto detto: è il preambolo del
libro ma potrebbe già costituirsi come un breve racconto dotato di dignità
propria, ma è solo il principio, e getta le basi per il grande circuito allegorico
ed avventuroso che è l’opera al nero.
Sfogliando le pagine del libro il lettore è rapito
dall’illuminata saggezza di Zenone e dalle sue riflessioni sul senso
dell’esistenza. È un continuo richiamo alla rivalutazione della propria vita in
chiave mistica e anti-meccanicistica:
la funzione di ogni essere umano è incisa nel suo destino, il suo cammino è la
strada verso la salvezza; è suo compito-missione trovare La Via ed entrare in
simbiosi con la sua funzione naturale, già scolpita nell’anima. Zenone, medico
per vocazione, non può far altro che seguire la sua predisposizione naturale, e
non rinuncia mai ad esercitare la sua attività nonostante le mille avversità
che incontra nel cammino.
Il libro è ambientato del XVI secolo, epoca di instabilità
politica e di ribellioni religiose. L’interesse della Yourcenar per le
questioni di spirito è evidenziato,
per contrasto, nell’ampio spazio che l’autrice dedica alla trattazione
di questioni temporali: la Chiesa è dilaniata dagli scismi interni -evocativo,
in tal senso, è il racconto dell’episodio di Münster- che fanno seguito alla riforma Luterana;
i suoi vicari vengono descritti severamente come uomini egoisti, arrivisti,
violenti, crudeli, severamente austeri, interessati, pedantemente istruiti. Fra
questi, unica eccezione è il priore di Bruges, che accompagna Zenone
nell’ultima parte della sua vita, quella sedentaria, quella dell’attesa,
scambiando con lui ispirate e disinteressate conversazioni sugli affari del
cielo e della terra.
In un clima violento ed instabile si susseguono personaggi
cupi e misteriosi, avventurieri oscuri e donne sinistramente devote; la carne,
il sangue, la morte infondono ogni pagina del libro che, proprio per questo,
rappresenta un inno alla vita animale dell’uomo, per sua stessa essenza
pericolosa, incerta, indeterminata. È palpabile la fiducia incondizionata verso
il destino, che la Yourcenar rende non come assoggettamento della propria
volontà al cammino per noi tracciato da un Dio superiore, bensì come
accettazione del fato, della Fortunae ellenica, del Mistero. Zenone, in
uno dei tanti momenti di contemplazione meditativa afferma: “Non cesserò mai
di stupirmi che questa carne sostenuta dalle vertebre, questo tronco congiunto
alla testa dall’istmo del collo, con le sue membra simmetricamente disposte
intorno, contengano e forse producano uno spirito che si servi dei miei occhi e
dei miei movimenti per parlare”.
È proprio quest’ultimo -il Mistero- un elemento
preponderante in tutta la narrazione che, ad avviso di chi scrive, rivela un
messaggio critico che dev’essere di insegnamento per la nostra epoca scientista
senza Dio: l’importanza di coltivare il Mistero. Zenone, e come lui altri
personaggi della storia, si lanciano nella vita in modo incondizionato,
abbracciandone l’ignoto divenire, senza il bisogno di stabilire piani precisi,
ma accettando le incertezze del domani, perché spinti da un fuoco interiore che
illumina e segna il cammino, che ne è causa e ne sarà inequivocabilmente anche
il fine. Del resto, “l’avvenire, così breve e fatale, acquisiva un elemento
di incertezza che coincideva con la vita”.
Il lanciarsi nel flusso è una scelta non priva di sofferenze
e rinunce, è un’azione infinitamente razionale che nega ogni possibilità di
radicamento in una dimensione sicura e stabile, è un atto disperato che
riconosce nella distruzione l’unica possibilità di Vivere davvero. Zenone si
sposta continuamente di città in città, abbandonando per sempre legami
provvisori ma non per questo superficiali (“il canonico Campanus si sovrapponeva
all’alchimista Riemer, e perfino al defunto Jean Myers; Ibrahim nel caffettano,
il principe Erik e quel Lorenzo l’assassino non erano più che facce diverse di
uno stesso solido, che era l’uomo.”); la sua scelta è di rinunciare alla
vana speranza di eternità terrena per abbracciare l’esistenza in ogni istante,
riconoscendo la morte come causa primigenia della vita, e la fine come
necessità per un nuovo inizio. Ritorna sempre la circolarità. È un atto di
estremo coraggio il suo, egli difatti regala il proprio corpo e la propria
anima ad una funzione, rinnegando le velleità terrestri ed entrando così in
armonia con l’Opera Universale. Il suo spirito di abnegazione è totale, resiste
anche alle lussurie della carne -fatta salva qualche rara eccezione- e alla
tentazione di abbandonarsi ai piaceri ed alle comodità che naturalmente
sopraggiunge con l’avvicendarsi delle stagioni. La castità è infatti per lui “uno
dei volti della serenità”, uno strumento che gli permette di “assaporare
la fredda conoscenza che si ha degli esseri quando non li desideriamo più”.
La narrazione della Yourcenar è cavalcante, senza sosta, non
permette mai al lettore di indugiare sulle frasi ed il ritmo forsennato
richiede estrema attenzione e sinapsi rapide. Un sintagma tira l’altro con voracità,
non c’è tempo per rilassarsi, non è una lettura da riposo. Non si fa in tempo a
metabolizzare un periodo che subito spuntano nuove idee, nuovi simboli, nuove
allegorie che richiedo nuove congetture, rinnovati paragoni che stimolano la
fantasia e la sete ontologica del lettore.
Il libro è diviso in tre parti, evidenziando ancora una
volta la centralità del simbolismo nel lavoro dell’autrice.
Nella parte iniziale la prosa è frenetica, densa di immagini
e contenuti narrativi. I personaggi sono descritti rapidamente, l’aspetto
fisico ed il carattere appena accennati; ben poco viene detto sui luoghi, che
sono delineati in modo essenziale, asciutto; la scrittrice racchiude in poche
righe periodi cronologicamente estesi dando l’impressione di aver poco tempo da
perdere nelle questioni marginali e fame di svuotare contenuti per lei
viscerali, primitivi, di
massimale importanza.
La prima
sezione risulta a tratti confusionaria, ad una prima lettura il filo logico
sembra sfuggire e gli eventi si susseguono in modo caotico. Anche lo stile
esprime questa confusione apparendo di difficile intellegibilità, a volte
sembra quasi che l’autrice confonda il soggetto nell’oggetto o perda la
concordanza logica. Nella postfazione, la stessa Yourcenar svelerà poi che la prima
parte è stata scritta tre decadi prima del resto del libro, chiarendo così le
differenze formali apprezzabili nella lettura del testo e dando ancora più
forza evocativa all’eterno ritorno del tempo: come la narrazione segue la vita
di Zenone dal concepito all’epilogo, così la genesi e la composizione del libro
ricoprono un arco temporale lunghissimo: ideati in adolescenza, i tratti del
protagonista si delineano e si compiono contestualmente alla crescita
dell’autrice stessa, in un rapporto simbiotico fra personaggio ed autore.
Le successive
sezioni, infatti, rivelano la maturità dell’autrice nell’uso di una forma più
distesa e comprensibile, pur mantenendo fede al contenuto “alto” dell’opera.
Non rinnega la propria volontà di trasmettere un lavoro di elevato valore
intellettuale, quasi a carattere iniziatico verso un mondo ed una tradizione
alchemica solo lambita in vari punti del romanzo. Nella seconda parte viene
fuori il carattere compiuto di Zenone, che si realizza definitivamente
nell’ultima sezione. Egli è uomo di scienza e di spirito, vuole
dimostrarci che le due componenti non si escludono a vicenda, ma anzi sono
facce di una stessa medaglia, contrariamente a quanto si creda oggigiorno nella
falsa credenza che vuole polarizzare in due estremi opposti la religione e la
scienza.
Egli è un medico clinico: ha fede in ciò che vede e applica
i suoi studi universali sul corpo dei suoi pazienti; questo non gli impedisce
però di credere nel destino e di avere una spiritualità ben definita, seppur di
tipo panteistico-naturale, non indotta, ma dedotta dall’osservazione del creato,
da cui deriva una forma di saggezza che è insita nella natura di tutte le cose,
e per osmosi è trasferita all’osservatore in grado di captarla. Egli infatti, “professa
la fede in un dio che non è nato da una vergine, non resusciterà il terzo
giorno, ma il cui regno è di questo mondo […]. Questo globo igneo è il solo Dio
visibile per creature che perirebbero senza di esso; il più vero degli angeli è
quel gabbiano che in confronto ai Serafini e alle potenze supreme ha più
l’evidenza di esistere”.
Zenone è dotato di una razionalità estrema e flessibile che
gli consente di vedere il divino nelle leggi fisico-matematiche della natura e
di applicare le stesse leggi nella ricerca dell’ineffabile: “lla meccanica
da un lato e la Grande Arte dall’altro non fanno che applicare allo studio
dell’universo le verità che ci insegnano i nostri corpi e che in essi si ripete
la struttura del tutto”. A metà strada fra la morale di Nietzsche e quella Kantiana,
difende il principio di autodeterminazione sino alla morte, ma è saggiamente
consapevole della piccolezza umana sotto le leggi del cielo.
Sono numerosi
i passaggi degni di nota che richiederebbero una trattazione dedicata, come il
discorso a Innsbruck fra Zenone e Massimiliano dove i due difendono le
rispettive scelte di vita: quella etica dedita agli studi e alla professione
medica di Zenone, e quella edonista ed estetica di Massimiliano. O l’episodio
di Münster, in cui sono denunciati gli effetti pericolosi di una fede
incondizionata e una fanatica idolatri in profeti ipocriti.
L’ultima
parte, dedicata alla cattura ed al processo di Zenone, è una brillante
dimostrazione delle conoscenze storiche e teologiche dell’autrice, e racchiude
il messaggio finale che permea tutta l’opera: l’importanza e la necessità della
rinuncia come atto di crescita individuale, il consegnarsi alla morte per
regalarsi alla vita stessa, accettare la putrefazione per sublimare l’esistenza.
Zenone ci insegna a mettere da parte le velleità dell’esistenza terrena per
prepararsi alla fusione con l’assoluto, unico fine e solo scopo possibile
dell’avventura umana; l’alchimista lo fa in tutta la sua saggezza e fermezza
quando, ormai quasi certamente destinato alla pena capitale, rinuncia alla
possibilità di vedersi dichiarato innocente e, comprendendo che la sua missione
è giunta al termine, si toglie la vita nella fredda cella in cui è
imprigionato. In poche pagine di cinica dolcezza la scrittrice descrive il
trapasso del filoso, che chirurgicamente recide le sue arterie, riuscendo ad
affogare gli ultimi spasmi di fragilità umana e andando coraggiosamente
incontro alla morte. Si spegne come una candela, osservando occhio clinico le
aberrazioni del corpo e dello spirito nell’attimo solenne.
A parere di
chi scrive, l’estremo gesto del medico rispecchia pienamente la filosofia
dell’intero romanzo, rintracciabile già in toto nella scelta del titolo:
bisogna accettare il mistero della vita senza temere la morte per essere
davvero liberi, e rinunciare alle velleità dei bisogni carnali per raggiungere
la pace interiore ed elevarsi ad uno stato di coscienza superiore. Per Zenone, “non
si è liberi finché si desidera, si vuole, si teme, forse finché si vive”;
l’agire del singolo, sospinto dalla visione armonica della propria funzione in
chiave universale, è il solo cammino percorribile verso un’evoluzione
spirituale individuale e, di conseguenza, anche collettiva.
È questo il
messaggio che bisogna estrapolare da questo romanzo, di cui l’epoca
contemporanea ha disperatamente bisogno: coltivare ambizioni verticali,
ritrovare la connessione con lo spirito, con l’immanente, con il mondo
invisibile, stimolando ed allenando continuamente l’occhio dello spirito, troppo
distratto dall’illusione orizzontale di un’esistenza limitata all’esclusivo
appagamento di bisogni materiali.
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