Se Machiavelli fosse stato un Machiavellico avrebbe scritto un Anti-Machiavelli” -C.Schmitt -
L’altro giorno, durante
uno dei miei giochi stupidi con amici ed amiche, ho chiesto a quest’ultime se
trovassero attraente Che Guevara. Ora, a parte lo sbigottimento davanti al
mancato apprezzamento fisico per Il Che, è stata questa l’occasione per uno di quei
flussi eraclitei di pensieri: da una questione banale e di poco conto, sono risalito
a cosa potesse essere la politica durante la Prima Repubblica.
Ci ho riflettuto spesso, senza in realtà mai capire fino in fondo cosa significasse fare politica 50 anni fa. Molto banalmente, non l’ho mai compreso perché gli stessi metodi -la prassi, quindi - sono cambiati: il volantino, ad esempio, sa di stantio, di vetusto. E poi non riesci più a trovare qualcuno che sappia fare uno striscione, che sappia fare attacchinaggio. Insomma, l’abisso tra le due fasi politiche lo riscontriamo anche in queste minuzie, certo colmabili sotto altri punti di vista utilizzando nuovi metodi (social, etc.) ma, comunque, significative. Tuttavia, tornando al discorso principale, anzitutto chiariamo i perché.
Perché non capiamo come si faceva politica allora? Perché ragioniamo con la testa di questo secolo: il nostro cervello è generalmente poco allenato alla politica, siamo figli dei nostri tempi. Secondariamente, perché la situazione politica non è “florida” come allora, e questo fa sì che sia ancor più difficile per noi colmare questo gap, non avendo la possibilità di metterci alla prova.
Chi però ha ben compreso
la lezione degli anni ’70 (decennio a cui molto spesso ci si riferisce, a mio
avviso, anche in modo improprio) è certamente il potere: lunedì scorso a Roma
non c’è stata partita. 3 a 0 e a casa.
Non solo, ma dobbiamo
anche ammettere che chi ha il potere è piuttosto bravino anche oggigiorno. O
meglio, chi rappresenta il braccio coercitivo del potere ci sa davvero fare. Ma
siamo anzitutto noi ad avere le nostre mancanze. Senza andare nel dettaglio
delle relazioni fra gruppi politici, possiamo constatare che rendiamo fin
troppo facile il gioco a chi ci comanda, a politici e persone “del palazzo” non
certo al livello di Andreotti, Moro o Craxi -senza contare poi la regia esterna
europea ed atlantica -.
Il nemico non è mai
stupido o avventato, come pensano alcuni, altrimenti avremmo noi il potere; avremmo già vinto la battaglia se non la guerra intera.
Arrivo, quindi, al
tema centrale del potere. Seguendo Weber, tracciamo alcune linee possibili intorno
a questa parola, tabù al di fuori del palazzo. E perché mai tabù? Perché
simboleggerebbe arrivismo od opportunismo. Mi spiego rapidamente e meglio:
spesso, a sinistra, nel profondo di alcuni anfratti, non è possibile
parlare della conquista del potere perché, in maniera po’ “anarchicheggiante”,
si verrebbe considerati alla stregua di stalinisti (???) o d'altre categorie politiche agitate in aria come fa una mano rapace all’asta giudiziaria.
Non dedicando altro tempo
a questi scimpanzé della politica, devo rilevare che la conquista del potere è
un problema che anche noi non ci poniamo abbastanza, probabilmente perché, avendo forze esigue (più che altro disorganizzate), non vediamo questa
prospettiva nell’orizzonte delle possibilità. Tuttavia, la storia lo insegna,
chi è giunto in modo rivoluzionario al potere ha sempre avuto il seguente
problema: un quadro dirigente non ancora preparato per la di lui acquisizione.
È meglio dunque porsene adesso, di questi dilemmi!
Come dicevo prima, abbiamo
principalmente due linee: una è quella di chi vive per il potere fine a se
stesso (Machtpolitiker avrebbe detto Weber dei praticanti di questa via in "Politica come Professione") -ed
è dunque un individuo sicuramente pericoloso -, l'altra è quella di chi,
ponendosi il problema del potere e del governo, mira alla loro conquista per
mettere in pratica i propri progetti principi, ben sapendo però che
dovrà insozzarsi parecchio le mani nelle trame politiche. Tenendo a mente,
tuttavia, che su alcune questioni o su alcuni principi non dovrà assolutamente
transigere: alla domanda se il fine giustifica il mezzo saprà modulare la
risposta, capire quando può e deve osare e quando invece dovrà saper desistere,
tenendo sempre a mente tuttavia che “la politica è lotta per il potere”. Questa
è a mio parere, in un certo senso, la lezione che possiamo trarre da Weber, al
quale mi sono riferito non certo in toto, credo, senza evirarlo o
stravolgendolo.
Dal nodo del potere,
dunque, faccio evidentemente risalire alcuni aspetti del nostro scarso rendimento
sul campo di battaglia. Va detto, giusto per rincarare la dose -sic! -, che la
diffidenza e la repulsione verso la politica rendono più
complicato il confronto su questi argomenti, i quali, in ogni caso, vanno sempre
sviscerati all’interno degli organi dirigenti, poiché chi è stato deluso da
partiti politici annusa, a volte impropriamente, arrivismo, in questo tipo di
ragionamenti. Questa posizione è, tuttavia, ben più genuina rispetto a quella
dei bonobi sinistrati menzionati più sopra, che forse dovremmo relegare
definitivamente allo stadio del folklore per non insultare ulteriormente l’arte
della politica.
In ultimo, alcune
questioni che mi riprometto di trattare, più approfonditamente, nei prossimi
articoli: l’ammirazione che alcuni giovani hanno per i grandi personaggi della
Prima Repubblica, figure imponenti e scaltre. E mi chiedo: se questi signori
erano al governo, chi manifestava in quegli anni convulsi si domandava e si
poneva questioni morali quando scendeva in piazza e veniva represso brutalmente
dalla polizia? Oppure, vedendo il trattamento servito loro, ben sapeva che il
proprio nemico non avrebbe certamente subito sconfitte in questo ambito (di
superiorità morale), ma al limite sul piano politico e/o militare? Secondo me
la risposta è talmente intuibile che non va neanche esplicitata.
“Se ci trovassimo a
dover scegliere tra un anno di guerra ancora e poi la rivoluzione, oppure la
pace subito ma senza rivoluzione, noi sceglieremmo ancora qualche anno di
guerra” -Conferenza di Zimmerwald -.
P.S.
Ah, e comunque tirano di più i terroristi di destra come Giusva Fioravanti che Che Guevara. A confermare, ahimè, anche in questo campo, la superiorità, in quanto a “freschezza”, della destra.
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