La protesta femminista è delegittimata? Dal momento in cui c'è il riconoscimento dell'uguaglianza de lege il problema si sposta sul terreno dell'uguaglianza sociale, e si incontra con tutti gli altri determinati dall'inadempienza o incompetenza dello Stato nel rendere fattuali i diritti tutelati dalla Carta Costituzionale. Mettiamo caso che le Costituzioni di ogni Popolo siano una coperta: lo spazio che lasciano scoperto, quando si sovrappongono al "corpo" sociale, è quello in cui i diritti della Carta non vengono secolarizzati. Consideriamo i professori; quanti sono quelli che sono sullo scranno per merito (o soltanto per merito) e non (anche) per nepotismo? La Carta forse non tutela soltanto il merito?Oppure: quanti sono, uomini e donne, che hanno perso tutte le proprie sostanze perché la Repubblica non ha garantito il loro risparmio com'è scritto?
Ad summam, non è rispettato neppure il
principio fondamentale dell'uguaglianza sociale, dal momento in cui sussiste
una forte disparità tra chi possiede ingentissime sostanze e proprietà e chi
raminga qualche boccone alla Caritas, o fa il magazziniere sottopagato a nero
(e qui subentra anche l'oppressione psicologica propria di qualsiasi rapporto
di forza impari, tra banca e correntista/debitore/creditore, tra eccessivamente
danaroso ed eccessivamente indigente, tra proprietario apolide di una grande
multinazionale e l'operaio che lavora in una singola sede guadagnando 1/100
-forse - rispetto ai dividendi del primo).
Questi conflitti sociali generati
dall'applicazione parziale dei diritti garantiti sono concretati dall'alternarsi
nella posizione di potere di una frangia politica o dall'altra, e quindi
dall'interesse degli uni e da quello degli altri: sono quelle problematiche che
qualsiasi Stato affronta, certo in misure differenti, e senza le quali sarebbe
perfetto (e quindi irreale). Ben diverso sarebbe se l'uguaglianza di genere non
fosse garantita dalla legge, ovviamente.
Considero un tutt'uno la problematica di genere rispetto alla nebulosa delle problematiche comprese nella macro area della lotta per la giustizia sociale, in cui la inserisco a buon dritto in quanto essa ha tanto valore quanto ne ha, ad esempio, la rivendicazione della redistribuzione della ricchezza. Nei fatti, se esaminiamo, la differenza di genere, che ovviamente non si nega così come non si nega la differenza di ricchezza, si acuisce proprio laddove questa differenza è maggiore, fino a scomparire all'incirca quando essa non v'è più.
Sarebbe quantomeno bislacco, infatti,
gridare alla radicale disparità di genere nel momento in cui, in Europa, la
nazione più potente è guidata da un buon decennio da una donna, così come a
capo della European Commission v’è una donna (certo, di sangue blu, ma cui
interest?); un discorso simile, in realtà, si potrebbe affrontare per tutto ciò
che nel moderno West viene chiamato “discriminazione”.
Accenderei un lume sull’attualissimo
(perché americano e perché mediaticissimo) problema del razzismo: gli Stati
Uniti, che hanno avuto recentissimamente ed in un momento di grandissima impasse
economica, un presidente nero, si possono considerare una nazione razzista?
Perché, dunque, le discriminazioni di genere e razza sono il malleus maleficarum con cui si fa una sorta di inquisizione ideologica quotidiana? Perché sono argomenti di così grande importanza mediatica? Perché, soprattutto, fanno leva sull’opinione pubblica, se sono, se non vuoti, almeno privati di buona parte del proprio inserto semantico? La risposta sarebbe molto complessa, e questa non può essere la sede per una discussione esauriente; mi sembra che, tuttavia, non possiamo fare a meno di riprendere il nostro argomento cardinale.
Se questi problemi esistono ancora, essi
vanno declinati su un piano sociale; la discriminazione fondamentale della
società occidentale -figlia di un sistema prima liberale, poi liberista, poi
post-liberista – non è mai altrimenti che economica; si allaccia poi ai
rigagnoli di storia sociale nazionale passata che trasportano quelle acque
reflue di problematiche superate su larghissima scala ma ancora resilienti
laddove, appunto, le condizioni contestuali sono talmente stringenti da
esasperarle nel generale approccio del mors tua vita mea.
Questo accade tanto più negli USA perché
la questione razzista si è attivamente trascinata fino all’ultimo terzo del
secolo scorso; in Italia, invece, il tasto battuto è tutt’oggi quello del
fascismo, il quale fortunatamente appare comunque molto più inconsistente
perché distante ormai cent’anni e, tuttavia, possiede ancora buon mercato sia
per la presenza infinitesima ma fattuale di pochissime organizzazioni
neofasciste -e no, non sono né Forza Nuova né Casapound, né tantomeno FDI o
Lega -, sia perché il sentimento antifascista, inalienabile presupposto per la
rinascita post-bellica del nostro Paese, può essere rideclinato facilmente in
modo strumentale verso un’ampia pluralità di argomenti, sia perché nella
memoria familiare ancora, talvolta spesso, rimangono vivi i ricordi di quella
maggioranza italiana che non fu né attivamente fascista né attivamente
resistente durante la Liberazione (ma certo, avendo dovuto prendere parte ai
rituali sociali fascisti, molti vedono, forse a ragione, essere stata più
attivamente fascista che resistente).
Ha gioco facile chi voglia e vuole
strumentalizzare quest’evidenza senza una pur minima interpretazione
storico-contestuale; qui, tuttavia, si tenta di fare, almeno in questo momento,
dialettica ermeneutica, non politica. Non giova, per parresìa, per amor di
verità, negare una qual forma di discriminazione, né ammettere fideisticamente
e senz’analisi che esista tutto ciò che ci viene suggerito; alla radice, oggi
-non ho la minima intenzione di assolutizzare dal punto di vista storico, lungi
da me -, la discriminazione assolutamente evidente è quindi economica. Da essa,
il resto.
Queste distinzioni nel merito almeno della
parità di genere, per concludere, sono tanto più fiacche quanto più la
scomparsa di divario crematistico si colloca verso l'alto, perché viceversa
vengono meno tutti quei presupposti per qualsiasi tipo di parità, sia economici
sia culturali. V'è solo parità nella disperazione.
Possiamo considerare parità il calderone omologante e liquido in cui ci troviamo?
Non colgo da molto tempo a questa parte
quella molteplicità sostanziale di vedute politiche, quella polarità che porta
all'inevitabile scontro ideale (e talvolta anche fisico): sia la sinistra
progressista, sia la destra (quella filo centrista e quella erroneamente detta
sovranista) si iscrivono agiatamente nel quadro liberista, divergendo per
aspetti davvero molto superficiali e che si colgono davvero bene considerando
il terrore, per esempio, di uno degli ultimi editoriali di De Angelis, in cui
si "scongiurava" velatamente la Lega di fare un fronte liberista
comune insieme al PD nel timore di una forza sovranista davvero sovversiva.
Senza contare che gli stessi organi di stampa sono lo specchio di questo liberismo comune, e quindi di una cultura che alla base ha le stesse premesse, seppur declinate talvolta in modi apparentemente molto differenti (sovvertendo il discorso, potremmo parlare di un'eterogenesi dei fini per cui i principi liberisti, declinati in differenze radicali di "facciata" fra i maggiori partiti attualmente sulla scena, si assicurano e spartiscono la quasi totalità della torta politica); sono lo specchio dei partiti (per i quali, più o meno velatamente, parteggiano) e anche degli interessi economici che muovono e i partiti e le testate stesse. Una testimonianza di ciò è il fronte comune recentemente fatto a favore dei "professionisti dell'informazione", con relativo collettivo anti fake news col fior fiore delle maggiori testate.
Una vera contrapposizione politica manca
da decenni, per cause che bisognerebbe discutere in un'altra sede, ma è proprio
questa mancanza che di fatto impedisce una pluralità che non sia solo
apparente.
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