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IL GENERE DEL PROBLEMA di Davide Fucci

 

La protesta femminista è delegittimata? Dal momento in cui c'è il riconoscimento dell'uguaglianza de lege il problema si sposta sul terreno dell'uguaglianza sociale, e si incontra con tutti gli altri determinati dall'inadempienza o incompetenza dello Stato nel rendere fattuali i diritti tutelati dalla Carta Costituzionale. Mettiamo caso che le Costituzioni di ogni Popolo siano una coperta: lo spazio che lasciano scoperto, quando si sovrappongono al "corpo" sociale, è quello in cui i diritti della Carta non vengono secolarizzati. Consideriamo i professori; quanti sono quelli che sono sullo scranno per merito (o soltanto per merito) e non (anche) per nepotismo? La Carta forse non tutela soltanto il merito?Oppure: quanti sono, uomini e donne, che hanno perso tutte le proprie sostanze perché la Repubblica non ha garantito il loro risparmio com'è scritto?

Ad summam, non è rispettato neppure il principio fondamentale dell'uguaglianza sociale, dal momento in cui sussiste una forte disparità tra chi possiede ingentissime sostanze e proprietà e chi raminga qualche boccone alla Caritas, o fa il magazziniere sottopagato a nero (e qui subentra anche l'oppressione psicologica propria di qualsiasi rapporto di forza impari, tra banca e correntista/debitore/creditore, tra eccessivamente danaroso ed eccessivamente indigente, tra proprietario apolide di una grande multinazionale e l'operaio che lavora in una singola sede guadagnando 1/100 -forse - rispetto ai dividendi del primo).

Questi conflitti sociali generati dall'applicazione parziale dei diritti garantiti sono concretati dall'alternarsi nella posizione di potere di una frangia politica o dall'altra, e quindi dall'interesse degli uni e da quello degli altri: sono quelle problematiche che qualsiasi Stato affronta, certo in misure differenti, e senza le quali sarebbe perfetto (e quindi irreale). Ben diverso sarebbe se l'uguaglianza di genere non fosse garantita dalla legge, ovviamente.

Considero un tutt'uno la problematica di genere rispetto alla nebulosa delle problematiche comprese nella macro area della lotta per la giustizia sociale, in cui la inserisco a buon dritto in quanto essa ha tanto valore quanto ne ha, ad esempio, la rivendicazione della redistribuzione della ricchezza. Nei fatti, se esaminiamo, la differenza di genere, che ovviamente non si nega così come non si nega la differenza di ricchezza, si acuisce proprio laddove questa differenza è maggiore, fino a scomparire all'incirca quando essa non v'è più.

Sarebbe quantomeno bislacco, infatti, gridare alla radicale disparità di genere nel momento in cui, in Europa, la nazione più potente è guidata da un buon decennio da una donna, così come a capo della European Commission v’è una donna (certo, di sangue blu, ma cui interest?); un discorso simile, in realtà, si potrebbe affrontare per tutto ciò che nel moderno West viene chiamato “discriminazione”.

Accenderei un lume sull’attualissimo (perché americano e perché mediaticissimo) problema del razzismo: gli Stati Uniti, che hanno avuto recentissimamente ed in un momento di grandissima impasse economica, un presidente nero, si possono considerare una nazione razzista?

Perché, dunque, le discriminazioni di genere e razza sono il malleus maleficarum con cui si fa una sorta di inquisizione ideologica quotidiana? Perché sono argomenti di così grande importanza mediatica? Perché, soprattutto, fanno leva sull’opinione pubblica, se sono, se non vuoti, almeno privati di buona parte del proprio inserto semantico? La risposta sarebbe molto complessa, e questa non può essere la sede per una discussione esauriente; mi sembra che, tuttavia, non possiamo fare a meno di riprendere il nostro argomento cardinale.

Se questi problemi esistono ancora, essi vanno declinati su un piano sociale; la discriminazione fondamentale della società occidentale -figlia di un sistema prima liberale, poi liberista, poi post-liberista – non è mai altrimenti che economica; si allaccia poi ai rigagnoli di storia sociale nazionale passata che trasportano quelle acque reflue di problematiche superate su larghissima scala ma ancora resilienti laddove, appunto, le condizioni contestuali sono talmente stringenti da esasperarle nel generale approccio del mors tua vita mea.

Questo accade tanto più negli USA perché la questione razzista si è attivamente trascinata fino all’ultimo terzo del secolo scorso; in Italia, invece, il tasto battuto è tutt’oggi quello del fascismo, il quale fortunatamente appare comunque molto più inconsistente perché distante ormai cent’anni e, tuttavia, possiede ancora buon mercato sia per la presenza infinitesima ma fattuale di pochissime organizzazioni neofasciste -e no, non sono né Forza Nuova né Casapound, né tantomeno FDI o Lega -, sia perché il sentimento antifascista, inalienabile presupposto per la rinascita post-bellica del nostro Paese, può essere rideclinato facilmente in modo strumentale verso un’ampia pluralità di argomenti, sia perché nella memoria familiare ancora, talvolta spesso, rimangono vivi i ricordi di quella maggioranza italiana che non fu né attivamente fascista né attivamente resistente durante la Liberazione (ma certo, avendo dovuto prendere parte ai rituali sociali fascisti, molti vedono, forse a ragione, essere stata più attivamente fascista che resistente).

Ha gioco facile chi voglia e vuole strumentalizzare quest’evidenza senza una pur minima interpretazione storico-contestuale; qui, tuttavia, si tenta di fare, almeno in questo momento, dialettica ermeneutica, non politica. Non giova, per parresìa, per amor di verità, negare una qual forma di discriminazione, né ammettere fideisticamente e senz’analisi che esista tutto ciò che ci viene suggerito; alla radice, oggi -non ho la minima intenzione di assolutizzare dal punto di vista storico, lungi da me -, la discriminazione assolutamente evidente è quindi economica. Da essa, il resto.

Queste distinzioni nel merito almeno della parità di genere, per concludere, sono tanto più fiacche quanto più la scomparsa di divario crematistico si colloca verso l'alto, perché viceversa vengono meno tutti quei presupposti per qualsiasi tipo di parità, sia economici sia culturali. V'è solo parità nella disperazione. 

Possiamo considerare parità il calderone omologante e liquido in cui ci troviamo?

Non colgo da molto tempo a questa parte quella molteplicità sostanziale di vedute politiche, quella polarità che porta all'inevitabile scontro ideale (e talvolta anche fisico): sia la sinistra progressista, sia la destra (quella filo centrista e quella erroneamente detta sovranista) si iscrivono agiatamente nel quadro liberista, divergendo per aspetti davvero molto superficiali e che si colgono davvero bene considerando il terrore, per esempio, di uno degli ultimi editoriali di De Angelis, in cui si "scongiurava" velatamente la Lega di fare un fronte liberista comune insieme al PD nel timore di una forza sovranista davvero sovversiva.

Senza contare che gli stessi organi di stampa sono lo specchio di questo liberismo comune, e quindi di una cultura che alla base ha le stesse premesse, seppur declinate talvolta in modi apparentemente molto differenti (sovvertendo il discorso, potremmo parlare di un'eterogenesi dei fini per cui i principi liberisti, declinati in differenze radicali di "facciata" fra i maggiori partiti attualmente sulla scena, si assicurano e spartiscono la quasi totalità della torta politica); sono lo specchio dei partiti (per i quali, più o meno velatamente, parteggiano) e anche degli interessi economici che muovono e i partiti e le testate stesse. Una testimonianza di ciò è il fronte comune recentemente fatto a favore dei "professionisti dell'informazione", con relativo collettivo anti fake news col fior fiore delle maggiori testate.

Una vera contrapposizione politica manca da decenni, per cause che bisognerebbe discutere in un'altra sede, ma è proprio questa mancanza che di fatto impedisce una pluralità che non sia solo apparente.

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