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IL CREPUSCOLO DEGLI IDOLI - LA CADUTA DELLE ELITE E IL FUTURO DELL'OCCIDENTE di Hattori Hanzo



Da quando la crisi del Covid-19 ha sconvolto l’occidente e il mondo intero, la vita del cittadino medio è continuamente disturbata da un assordante rumore mediatico, incarnato da una pletora di esperti di vario titolo che sentenziano su come una persona normale debba o non debba comportarsi, su quali siano i comportamenti “virtuosi” e quali quelli “irresponsabili”.

Non passa giorno senza che un epidemiologo, un virologo, un igienista o un biologo nutrizionista, ospite in una rete nazionale senza contraddittorio, ordini la chiusura di questo o quell’esercizio commerciale, ci dica quante volte possiamo andare a fare la spesa, di quanti metri possiamo allontanarci da casa per prendere aria o con chi e quanto spesso possiamo lasciarci andare ad un volgare e poco igienico coito.

Per quanto grottesco possa apparire, la folle e schizofrenica gestione della pandemia affonda le sue radici in un processo iniziato in un lontano passato, agli albori dello stato moderno.

Ma andiamo con ordine.

Il primo pensatore che dobbiamo necessariamente prendere in considerazione è Thomas Hobbes. Il filosofo inglese fu il primo in Europa a mettere in discussione la nozione aristotelica di uomo come “animale politico”, ribaltandola in una visione pessimistica della società, dominata dall’egoismo.

Come è noto, per Hobbes, l’uomo non è altro che un lupo per gli altri uomini, un avversario, un nemico da abbattere per preservare la propria esistenza individuale.

Per scongiurare un’eterna guerra di tutti contro tutti, i popoli ad un certo punto stipulano un contratto, delegando ad un uomo o ad una serie di uomini, la gestione dell’apparato pubblico, cedendo una quota più o meno grande di libertà individuali in cambio della salvaguardia della propria vita e dei propri beni.

Ed ecco che nasce lo stato moderno: non più un gruppo di uomini uniti da una comune discendenza o da un insieme di valori condivisi, ma un aggregato atomistico di individui in perenne conflitto, ordinati da un apparato tecnico, legislativo e burocratico.

La miglior rappresentazione del concetto hobbesiano di Stato è probabilmente offerta dal frontespizio originale della sua opera più famosa, Il Leviatano: l’immagine di un uomo con scettro e spada, simboli di regalità, domina il mondo, formato a sua volta da una serie enorme di tanti piccoli uomini, emblema della machina machinarum, che è somma di tutte le sue parti e contemporaneamente entità separata a sé stante.

Con l’avvento della rivoluzione industriale, lo Stato moderno europeo potè disporre di una implementazione senza precedenti di strumenti tecnico-amministrativi che gli consentirono di espandere la sua influenza verso altri continenti e di estendere il suo imperio ad aspetti sempre più ampi della vita civile.

Il Capitalismo, organizzatosi tecnicamente e burocraticamente in apparato, in nomenklatura composta da un numero sempre più elevato di funzionari, scienziati, delegati, esperti di vario genere, sembrava in quel momento inarrestabile perché riusciva a garantire in maniera sempre più efficiente e ad un gruppo sempre più numeroso di persone quello che prometteva, in un eterno ciclo di sviluppo-innovazione-benessere-nuovo sviluppo.

La prospettiva in futuro sempre più roseo, in cui il mondo non avrebbe più conosciuto la guerra, la fame e le malattie, si accompagnava ad un ottimismo diffuso e comprensibile.

Max Weber fu il primo che comprese che l’essenza del capitalismo, e conseguentemente quella dello stato moderno che gli è indissolubilmente legato, non si costituiva nel compulsivo accumulo di capitale, come invece credeva Marx, ma nella razionalizzazione puntuale di questo processo.

La tendenza all’accumulo illimitato di ricchezze, per Weber non è una novità del Capitalismo, ma è solo con il Capitalismo, grazie all’apparato tecnico-amministrativo dello Stato che lo sorregge, che questo processo giunge alla sua piena maturazione, alla sua piena razionalizzazione, attraverso la stratificazione sociale dell’attività economica e alla divisione sempre più funzionale del lavoro.

Secondo Weber, il processo di intelletualizzazione moderno arriverà a dominare ogni aspetto del mondo, stringendolo in una “gabbia d’acciaio” che porterà inevitabilmente al suo “disincanto”, alla fine cioè del mondo abitato da selvaggi e dominato da forze oscure e indecifrabili e l’inizio di un mondo che è semplicemente teatro dell’azione umana, in cui ogni azione, ogni fenomeno si può in linea di principio spiegare e dominare con la razionalità tecnica.

La “gabbia d’acciaio” weberiana, implementata nelle due versioni del capitalismo americano e sovietico, effettivamente consentì nel corso del ‘900 uno sviluppo, una sicurezza e un benessere ad un livello mai precedentemente osservato nella storia umana ed era da questi risultati straordinari che l’intera machina acquisiva legittimità agli occhi del cittadino comune.

Questo stato di cose, questo patto tacito tra la popolazione e l’apparato, inizia a incrinarsi negli anni ‘70, quando il capitalismo mondiale entra in crisi: i due modelli capitalistici sembrano, per motivi diversi, non più in grado di mantenere le promesse fatte e per la prima volta il meccanismo sviluppo-innovazione- benessere subisce una battuta d’arresto.

Il primo a mettere in guardia dalle possibili conseguenze di un evento di questa portata fu il filosofo francese Guy Debord.

Debord, ne La Società dello spettacolo, nota acutamente come il capitalismo e l’intera tecnostruttura che lo sorregge, non riuscendo più a dominare il mondo, ad adattarlo ai suoi scopi, si rifugia in una sua rappresentazione, che Debord chiama spettacolo.

Sarebbe molto ingenuo ritenere che per il filosofo francese la nozione di “spettacolo” possa riferirsi esclusivamente alla rappresentazione mediatica e agli attori che la compongono.

Per Debord lo spettacolo non è altro che la realtà non più immediatamente esperibile attraverso i sensi e la vita di tutti i giorni, ma che viene filtrata attraverso una serie di rappresentazioni specialistiche.

In altre parole, la tecnocrazia, gli esperti, le elitè, non riuscendo più ad interpretare il mondo, si rifugiano infine in un suo simulacro, una realtà fittizia ma oggettivata, costituita da modelli economici, statistici, morali e mediatici.

Per Weber, il capitalismo si era generato dalla visione protestante dell’etica del lavoro, che vedeva il successo professionale come un segno di benevolenza divina, ma ad un certo punto il processo di razionalizzazione e organizzazione dell’efficienza tecnica aveva dimenticato il suo fine ultraterreno, lavorando solo per sé stesso, espandendosi sempre di più e aumentando così il proprio dominio sulle cose.

Per Debord, la moderna organizzazione sociale ha infine perduto anche questa funzione, trasferendo ogni suo sforzo nella preservazione del proprio dominio, attraverso una falsa rappresentazione di sé. In questo senso, per Debord, il vero diventa un momento del falso, dato che ciò che il modello di realtà messo in scena dal capitalismo rappresenta come vero, nel mondo reale diviene necessariamente falso, dato lo iato esistenze tra la vita naturalmente esperita e la sua rappresentazione. In questo modo, l’esistenza umana moderna è continuamente scissa fra realtà e l’immagine della realtà mediata dallo spettacolo attraverso il “il discorso che l'ordine presente tiene su sè stesso, il suo ininterrotto monologo elogiativo”.

La crisi provocata dal Covid-19, ha portato alle estreme conseguenze questo processo lucidamente previsto da Debord, proiettandolo probabilmente in una fase nuova.

L’esistenza umana non è più semplicemente divisa tra la realtà e la sua rappresentazione, ma la rappresentazione diviene essa stessa l’unica realtà.

Lo spettacolo, attraverso una miriade di norme, protocolli, indici e progressioni, diventa esso stesso il soggetto del mondo, unica realtà, alla quale l’uomo diviene estraneo, alienato.

La pretesa della Grande Macchina di entrare nei corpi, nei movimenti, negli aspetti più banali e naturali dell’esistenza genera una nuova realtà, l’unica possibile, nella quale l’uomo è estraneo, alienato da sé stesso e dal mondo che lo circonda.

In altre parole, il sistema di governo inaugurato dall’epidemia non sembra essere solo un incidente, un granello di sabbia nella altrimenti perfetta macchina amministrativo-burocratica del capitalismo, ma al contrario né rappresenta una sua naturale evoluzione: non essendo in grado di gestire fenomeni così complessi e radicali, nemmeno con l’ausilio delle nuove tecnologie, le elitè occidentali non hanno trovato altro sistema se non quello di implementare le procedure della sua struttura alla vita civile, innescando una vera e propria burocratizzazione dei rapporti sociali, con le conseguenze grottesche a cui ormai siamo abituati.

Non bisogna illudersi che questo sistema di controllo, pervasivo inversamente proporzionale alla sua efficacia, si esaurisca con la crisi pandemica. In futuro dovremo abituarci a una sempre maggiore erosione delle libertà e dei diritti acquisiti, in nome di “emergenze” (pensiamo solo al “lockdown climatico”, paventato da alcuni economisti ed esperti), che spesso risultano essere solo degli espedienti attraverso i quali la tecnocrazia occidentale proverà ad incidere sempre più morbosamente nella vita quotidiana delle persone, per orientare i consumi, la produzione e conseguentemente le abitudini sociali.

In sostanza, la grande Macchina del capitalismo, sia esso occidentale o cinese, ha bisogno di un controllo sempre più pervasivo in aspetti dell’esistenza finora liberi dall’incubo burocratico: sarà necessario per l’apparato conoscere non soltanto chi siamo, quando siamo nati, che lavoro facciamo, quanti figli abbiamo e dove vanno a scuola, ma anche come spendiamo i nostri soldi, quali luoghi o persone frequentiamo, cosa pensiamo di determinati argomenti, quanta spazzatura consumiamo, quanta CO2 immettiamo nell’aria espirando e così via. Ma in un mondo del genere, che ne sarà delle nostre libertà civili? Insomma, ha ancora senso interrogarsi sul funzionamento della democrazia quando non ne sussistono le condizioni oggettive? Già Nietzsche, aveva notato che la morale cristiana, e dunque quella moderna che della prima è un surrogato, poteva ammettere il libero arbitrio esclusivamente come giustificazione dell’errore della dottrina.

Riflettendoci, è esattamente quello che sta succedendo nella gestione della crisi del Covid, dove la recrudescenza dei contagi è esclusivamente da attribuire al runner solitario, agli aperitivi di agosto e alle cene in famiglia.

La nomenklatura, non potendo ammettere che i provvedimenti da essa espressi mal si adattano alla realtà e alle complessità della vita, generando una serie di aporie fattuali ridicole e grottesche, rovescia il problema, sentenziando che se la Macchina non funziona non è perché sta andando fuori giri ma perché le persone ancora non si adattano del tutto alla burocratizzazione morbosa dei rapporti sociali, insistendo ancora nel voler esercitare un minimo di libero arbitrio, che la Macchina traduce cinicamente in variabile incalcolabile.

Pertanto, le libertà civili in questo mondo sono destinate a venir tollerate, esclusivamente perché serviranno come giustificazione per gli errori dell’apparato tecnico-scientifico.

 Se all’inizio degli anni Novanta il compianto Chritopher Lasch poteva parlare apertamente di “rivolta delle elitè”, con una preveggenza e una precisione francamente impressionanti, quella a cui oggi tutti noi ci troviamo di fronte assomiglia di più ad una vera e propria “offensiva” delle elitè, che paradossalmente ne segna anche l’inizio della caduta.

Ci troviamo dunque a dover affrontare un duplice problema.

Da un lato, la fine e il fallimento di tutto un apparato di esperti, tecnici, burocrati, funzionari, politici e analisti finanziari (insomma, dell’elitè dominante almeno dal dopoguerra), che, non essendo più capace di interpretare il mondo, si è chiusa per decenni una sorta di iperrealtà -fatta di vernissage alla moda, convenctions, circoli culturali, think-thank etc.- e che ora si trova a fare le spese con la propria inadeguatezza, forzando i cittadini comuni a conformarsi al proprio modello scellerato.

Come se non bastasse, il Covid non ha solo manifestato pienamente l’inconsistenza e la falsa competenza delle elitè, ma ha posto, se è possibile, un problema ancora più serio: non sono qui solo gli interpreti della tecnostruttura ad essere sotto accusa, ma la stessa ideologia che li ha legittimati: la convinzione e la fede che ogni problema, ogni questione moderna possa essere affrontata esclusivamente grazie all’ausilio della razionalità tecnica , che riduce la complessità della vita ad una serie infinita di entità calcolabili.

In questo senso, stiamo forse assistendo oggi ad una prima risposta verso questi problemi di portata epocale, attraverso prima l’esplosione dei fenomeni populisti (Trump, Salvini, M5s, etc)- che hanno cavalcato il malcontento generato dalla prima di queste due questioni (“uno vale uno, democrazia diretta, i professoroni dicono che etc”)- e poi quella del fenomeno “negaziosta” o “novax”, che invece prova a cavalcare i disagi provocati dalla seconda questione.

Ora, queste risposte “popolari” sopra schematicamente espresse, non sono altro che la risposta confusa, caciarona e folkloristica di un fenomeno sociale molto serio: non solo le persone comuni sentono che la propria elitè non riesce più a risolvere i problemi della vita quotidiana, ma ora inizia addirittura a capire che la “competenza” sbandierata ai quattro venti si è ridotta ormai a vuoto simulacro, a pallida astrazione.

Insomma, il cittadino medio inizia a capire che se i sondaggisti, i consulenti finanziari, gli scienziati, i sociologi, gli economisti, i politici e i funzionari pubblici, sistematicamente steccano le previsioni o le decisioni, non è più solo perché quel particolare analista o particolare scienziato sia incompetente o in mala fede, ma perché l’ideologia alla base di tutte queste discipline è ormai sorpassata e pertanto strutturalmente fallace.

Ci troviamo presumibilmente, in un momento simile all’inizio del rinascimento, quando una serie di pensatori iniziò a mettere in discussione la scienza dominante, quella aristotelica, che allora sembrava vecchia, incapace di trovare nuove soluzioni e sempre più astratta, essendo sempre più relegata all’interpretazione di una parte specifica della società.

Questo processo nel vecchio mondo, impiegò più di due secoli per giungere a piena maturazione, ma è plausibile che in sistema globale sempre più veloce ed interconnesso, la transizione sia molto più breve.

Sarà solo allora che potremo capire se il sistema occidentale saprà resistere ad una spinta così forte verso la delegittimazione o se ne verrà travolto.

Intanto, the show must go on.

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